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  MOSTRE D'ARTE  

TAVERNARI

   

 

 
VITTORIO TAVERNARI
NEL SEGNO DEL TEMPO
a cura di Fabrizia Buzio Negri e Marisa Zattini
Cesena, Palazzo del Ridotto e Centro Storico 
dal 7 luglio al 17 settembre 2000
Catalogo: Edizioni IL VICOLO Divisione Libri, Cesena, 2000

IMMAGINI DELL'INAUGURAZIONE

Scultura, all’origine dell’umanità
 
Vittorio Tavernari. Maternità, figure, torsi, calvari, cieli, amanti. Le radici vere dell’essere. L’ipotesi dell’esistere in termini di universalità. Il valore assoluto sfuggito alla narratività dell’episodio, fuori del filo storico.
Una rivalutazione costante e coerente delle ricerche in atto nel secondo dopoguerra italiano porta a una riflessione critico-storica sul lavoro scultoreo di Tavernari, uno dei protagonisti della scultura moderna. Un’esperienza artistica estremamente innovativa, condotta in un ‘fare’ inedito attraverso sperimentazioni peculiari che innescano ampie possibilità di nuove letture.
Nel transito creativo, ricorrenti sono le tematiche articolate in cicli, affrontati in una completezza espressiva mai superficiale, in grado di individuare speranze, amore, religiosità, vibrazioni arcane. Le tappe più evidenti della vicenda artistica di Tavernari svelano riflessioni e intuizioni al fine di acquisire ogni volta suggestioni nuove. Le fasi successive della ricerca interrogano le precedenti, rispondono con il baluardo della fede ai misteri dell’esistenza, addentrandosi nelle contraddizioni dell’uomo con la ferma coscienza della sacralità del vivere.
 
Il rapporto intrattenuto agli esordi con la cultura del tempo è intenso e fermo. Negli anni ‘44/’45, il fermento intellettuale si dimostra aperto al confronto con le coeve istanze europee, ormai fuori dai ristretti limiti delle situazioni italiane, staticamente fisse entro le coordinate delle due guerre. Una prospettiva di libera espressione che Tavernari aveva acquisito sin dai tempi della sua formazione giovanile, avvenuta nell’atelier di un valente maestro, Francesco Wildt, che diviene figura determinante, dopo quella del padre restauratore d’arte, per il giovane artista con la vocazione alla scultura.
E’ in quei tempi difficili e frastornanti a Milano tra il ’35 e il ’39 che Tavernari impara a lavorare su materiali differenti, in un ‘fare’ assiduo su legno, marmo, pietra, bronzo. Nell’atelier del maestro Wildt transitano artisti significativi come Carmelo Cappello, Bruno Cassinari, Milani e Dal Forno. Nasce un sodalizio importante e fervido per le ulteriori implicazioni che negli anni a venire troveranno sviluppo.
Nei primi Anni Quaranta, già si delinea quello che sarà il filo conduttore attorno a cui si muoverà il cammino artistico di Tavernari. Nel tempo della fuga e del soggiorno a Como, dove ha modo di frequentare il gruppo del Caffè Rebecchi, si consolida l’amicizia con i futuri artisti di quello che verrà denominato "Gruppo di Como": sono Manlio Rho, Aldo Galli, Alberto Sartoris, Pietro Lingeri. Parimenti incontra Piero Chiara, Ennio Morlotti. E nel 1945 con Morlotti, Testori, Cassinari, Birolli, Cavallari, Paganin, Guttuso, fonda il Gruppo Numero, dal nome della rivista che intende ripercorrere gli esiti innovativi di Corrente. L’anno successivo, Tavernari è firmatario del manifesto Oltre Guernica, scaturito dall’urgenza dei tempi che si aprono a un impegno morale e intellettuale, a sostenere con rigore la nuova ricerca nel campo delle arti visive.
L’ambiente artistico milanese si presenta molto combattivo e l’atmosfera appare densa di provocazioni; dal canto suo, nel clima generale incandescente, Tavernari offre soltanto una sorta di solidarietà etico-esistenziale. Per lui è giunto il momento delle scelte: nella quiete della provincia di Varese, dove si stabilisce dopo il matrimonio con Piera Regazzoni, valente violinista, può ora meditare nel silenzio di lunghe giornate di lavoro solitario, per mettere a frutto la maestria tecnica entro le suggestioni e le scoperte della sua viva creatività.
Di quel travagliato, fertile periodo rimane un percorso avvincente, innestato sulle Maternità, in legno e in pietra, che prefigurano, in una evoluzione ideale e plastica, le Pietà. Ascia e sgorbia: il gesto possente e rivelatore forgia quei tronchi che sembrano alludere alle antiche prove dei maestri comacini.
La struggente unitarietà delle due figure – la madre con il figlio e la Madre Divina con il Figlio di Dio – lascia emergere una fortissima componente arcaica, in una forma da riportare alla scultura arcaica, per quella salda volumetria risalente pure a motivazioni totemiche. Sacrale e ieratica, la Madre di Tavernari è apparizione primitiva, in una intuizione essenziale del valore della vita e dell’amore.
L’assenza del dettaglio, la marcatura plastica che non ammette incertezze rispondono alla sua personale esigenza della verità, della generosità espressa dall’amore materno, nel tono estremo di una religiosità che tutto umanizza, nel gesto protettivo dell’abbraccio infinito. Così il soggetto delle Pietà si contestualizza in una continuità riflessiva dalle Maternità, tematica che Tavernari mai lascerà cadere, riprendendola costantemente nel tempo, fino alla Grande Madre del 1980.
 
Tavernari non abbandona mai il suo interesse per il corpo umano, anche se l’itinerario appare molteplice e la modulazione creativa è continua. Le ascendenze culturali si illuminano talora delle esperienze di Moore, Arp, ma anche di Marino, di Maillol e, risalendo via via, risentono del fascino arcano del Romanico lombardo, dell’arte negra o, talora, della dolorante scarnificazione di Giacometti.
Gli esordi degli Anni Cinquanta recano una vigorosa tensione intellettuale, in una strutturazione prima mentale e poi volumetrica che porta l’autore ai Totem, testimoni di vitalità potenziali primarie. In particolare, si coglie l’emblematicità panteistica del Totem eseguito in vetroresina nel 1972 (di proprietà della Banca di Lodi, Varese) su progetto del 1949/’50. Del 1948 è il bozzetto in legno di quel Totem monumentale, realizzato negli Anni Settanta e oggi di proprietà del Castello di Masnago, a Varese, esposto in mostra. Ancora del 1949/’50 è l’altro Totem in legno della Galleria d’Arte Moderna di Milano.
Da quell’impronta, nei ritmi volumetrici essenzialmente astratta, una nuova indagine figurativa induce l’artista a continue modulazioni sulla figura femminile: alla metà degli Anni Cinquanta sono i Torsi ancora turgidi in legno, in gesso, a recuperare quell’addensamento di valenze esistenziali fuori della contingenza aneddotica. Nel riscontro formale riaffiora una linea classicheggiante, già sul punto di disintegrarsi. Una maturata consapevolezza formale si rivolge ora in modo prevalente al nudo femminile, in un procedere essenziale su schemi plastici antropomorfi. La figurazione diviene peculiare in una fortissima valenza centripeta entro quei monoliti scalfiti drammaticamente in una descrittività sommaria, quasi brusca: ed è, sempre ed ancora, la figura femminile ad accogliere il vissuto più sentito, nascita e morte, alfa e omega, della scultura tavernariana.
Nei nudi femminili di quegli anni, è la luce la vera dominatrice dell’opera scultorea, percorsa da fremiti improvvisi sulla superficie scabra, che si rapprende attorno all’esplorazione fitta della materia.
 
Alla Biennale di Venezia del ’54, Tavernari espone Carità e Maternità in pietra, già indagando aperture verso nuovi corpi dalla sensibilità informale. Dopo aver sperimentato quelle consistenti sensazioni antropomorfe, ora l’artista guarda a sviluppi più emotivi su legno, cemento, pietra.
Da qui, prendono vita i Legni Piatti del 1958/’59, lunga sequenza di Torsi femminili e di Torsetti che testimoniano, prolungandosi fino alla metà degli Anni Sessanta, la piena maturità di un linguaggio espressivo singolare: sono "il passo decisivo" afferma Ragghianti. Arcangeli, poi, sottolinea il coinvolgimento in quello che chiama "Ultimo Naturalismo", un clima ‘pittorico’ di presa di coscienza della materia in senso organico.
L’evoluzione della figura avviene nella ricchezza di immaginazione che abbandona l’energia, la generosità massiccia in cui prima la forma affondava nel cilindro della materia. Anatomie lievitanti appaiono nelle approssimazioni delle tacche, prodotte dallo scalpello, nella fragilità estrema dello sfaldamento verso l’astrazione. Il lieve rigonfiarsi dei seni, la morbidezza del bacino sembrano come percorsi come da amorose e insieme affannate carezze, mentre le striature sulle fibre legnose risvegliano il sapore antico della vita nel momento dell’intuizione più sensuale.
Ai Torsi femminili si alternano i Torsi di Cristo Crocifisso, schematizzato nell’essenzialità di un tronco martirizzato.
 
La critica italiana più avvertita dedica a Tavernari studi approfonditi attraverso gli scritti dei già citati Ragghianti e Arcangeli, a cui si affiancano De Micheli, Carluccio, Valsecchi, Santini, Russoli e Carli.
Ancora Arcangeli, per Tavernari, parla "di una accentuazione del sentimento che gli è particolare, come un dolore e una gioia inestricabili, ma tutti interni, quasi da stanza privata."
La vitalità creativa si muove verso cicli compiuti dal difficile, complicato spessore: ogni esperienza è portata all’estremo, in una consumazione esistenziale senza fine. Oltre al legno e alla pietra, anche materiali come la creta e il gesso, ritrovano quasi un punto di partenza biblico: la terra si mescola idealmente con la carne per diventare provocazione umana.
Ogni espressione scultorea, in quella che viene considerata la stagione più alta della creatività tavernariana, diviene più intima, più legata ad una visione della vita avvertita nella solitudine, in una confessione silenziosa di gesti dolenti entro la materia. Zone di luci e ombre si spartiscono la scultura entro l’urgere e il moltiplicarsi delle vibrazioni vissute fino allo spasimo. La testimonianza della figlia Carla, nel volume "Lettere a Tavernari", (Nicolini Editore, Varese, 1994), puntualizza la tecnica dell’artista:"…sui massicci tronchi di legno africano, come l’iroko, dopo la prima sbozzatura, tracciava col carboncino dei segni corrispondenti alla sagoma della scultura da scolpire e procedeva così, per via di levare, alla realizzazione dell’opera."
 
Molte, anche, in questo periodo, le prove pittoriche e grafiche, modulate in un respiro fremente. Un disegnare, che non è mai fine a se stesso, ma risolve un’esigenza di risultati da esperire, abbandonandosi al gesto dell’immediatezza, all’urgenza dell’idea. Disegni, tempere, documentano un procedere entro una frammentazione palpitante della figura femminile, sempre più senza braccia e acefala, mente l’addensamento delle scalfitture lascia germinare potenzialità, in un serrato colloquio con la materia lacerata o nell’esercizio di insondabili avvallamenti.
Esiste una forza che traversa le sculture (così come per il disegno e la grafica) dall’interno, in una sorta di decantazione della sofferenza, resa visibile in quel levare, soprattutto quando la materia scelta è il legno e la scultura appare nella visibilità delle fibre della materia.
"I colpi si susseguono febbrili – scrive Marco Valsecchi nella monografia "Vittorio Tavernari. Sculture. 1945-1970", Scheiwiller, Milano, 1970 – a tensione crescente. Eppure non cercano mai la confusione dell’informe: ogni segno porta la sua luce e il suo rovescio d’ombra con calcolato contributo…."
 
In una ieratica, aperta frontalità sono i Cieli del decennio Sessanta, tramati da testure incise, stratificate, sublimate in una temperie esistenziale che produce uno scarto visivo verso l’infinito della luce.
Ma prima dei Cieli smisurati, giungono i Calvari, torsi e croci al tempo stesso. Qui, le figure sono elementi essenziali che si ergono in un’aspra solitudine acquisendo una coscienza cosmica. Nell’altissima dimensione di una intrinseca spiritualità, i Calvari paiono la discendenza diretta di quei Torsi di Cristo che li hanno preceduti: conducono alla grande partecipazione corale del sacrifico del Golgota.
Le tante contraddizioni di quegli anni si rispecchiano in un drammatico e sconcertante presente. La guerra del Vietnam, da una parte, le conquiste dello spazio, dall’altra, delineano un presente segnato da un travaglio morale di forte intensità.
Già nel primo Cielo del 1968, le veloci tacche sul legno ribadiscono il mistero di un cosmo, in cui febbrilmente collocare le piccole figure, le croci, evidenti, nonostante le minute proporzioni.
I Cieli, rilievi bassissimi su bronzo oppure su legno in cui il colore offre variazioni di gamme per effetti plastici minuziosamente inseguiti, sono percorsi da aliti di vento nelle striature che corrono parallele. Le distanze si fanno immense sulle piccole apparizioni: sono tre croci, è una coppia, sono gli amanti avvinti nella passione. Nell’orizzonte lontano, trascorrono nubi talora minacciose, scenografia ricorrente e senza tempo del dolore umano, del travagliato fremito della carne verso la quiete dell’eternità.
Da quel lontano esperire tecniche e materie, nelle lezioni wildtiane, Tavernari ha maturato una propria cifra stilistica, in una feconda, ideale adesione a un motivato rinnovamento dell’arte, a cui affidare il suo messaggio umano, in inesauribili soluzioni formali.
Il ritorno a forme meno astratte, più legate al reale, dichiara la volontà di esprimere tutta la temperie umana, senza cristallizzazioni intellettuali che Tavernari non sente sue.
 
Il ciclo degli Amanti, che prendono a vivere dagli Anni Settanta, ulteriore scandaglio sulle tematiche dell’Amore, riportano il volume nelle sculture, acquisendo, nell’equilibrio della composizione, masse corporee di grande entità. Sono gruppi monumentali, come gli Amanti in legno, 1973, del Comune di Barasso, che richiudono il cerchio della creatività nella consapevolezza formale delle prime Maternità.
Diceva lo scultore, in una frase riportata da Enzo Carli in "Tavernari", Ed. Giardino, 1974: "Per me, da molti anni ormai, non esiste che la possibilità, quotidiana, di scoprire la vita attraverso il soggetto della figura (sottinteso: umana) dove s’incontrano, e si fondono, le realtà esterne a quelle sotterranee, dei miei sentimenti dell’ora. Ed è qui, in questo limite indecifrabile spesso, che si fa realtà il dibattito, a volte tragico e non mai senza peso, della mia faticosa giornata di uomo: le contraddizioni, le ricerche, le lancinanti ore del dubbio. In una materia quasi tento di chiarire a me stesso questa situazione: di armonizzarla, di illimpidirla, per sopravvivere, almeno."
Dall’immagine ridotta a luci e ombre, ricompare con gli Amanti la corporeità, in una consapevole armonizzazione del volume e del peso. Fino alle ultime figure in legno, l’artista riprende quella vena di creatività e dà, ancora una volta, una risposta valida, positiva, alla terribile affermazione di Arturo Martini "Scultura, lingua morta".
Le possibilità di lasciare decantare la condizione dell’esistere umano nella materia legano l’artista a una verità divenuta, via via, molto personale: con le ultime opere, come per la Figura femminile lasciata incompiuta nello studio, la narrazione si conclude, in una partecipazione emozionale intensamente risentita, con il prevalere della ritrovata dimensione corporea, dopo la rarefazione formale e gestuale degli Anni Sessanta.

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